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Sanremo 2020, non è tutto oro quello che fa rumore

Diodato Sanremo 2020
Diodato Sanremo 2020 Instagram Diodato

Sanremo mi piace.
Al di là delle polemiche (o proprio per le polemiche). Al di là del trash e del “Hai visto come era vestito quell*?” (o proprio per il trash e per i look delle star). Al di là della musica (o proprio per la musica).
Ogni anno è come se Natale durasse per un’altra settimana (che culmina con gli Oscar, poi!). Dormi quattro ore a notte, passi tutta la giornata a commentare le performance della sera prima, le polemiche (io e il mio gruppo whatsapp Sa(n)remo Famosi siamo ancora qui bloccati a parlare di Bugo e Morgan), fino alla puntata successiva e repeat.

Sanremo 2020 (o ventiventi, per dirla à la Amadeus) l’ha vinto Diodato con Fai rumore, cioè “la canzone più bella del Festival”. A dirlo non sono solo io, ma Simonetta Sciandivasci, l’autrice di uno dei pezzi più interessanti su questa edizione, pubblicato su Il Foglio.

Scandivasci fa luce sul grande potere dei poeti e cantautori. «Diodato ci ha fatto vedere una cosa importante, e le canzoni sono canzoni nello stesso modo in cui i romanzi sono romanzi: quando danno il nome a una cosa che hai sempre sotto gli occhi ma non vedi finché non arriva qualcuno a dirti cos’è e come si chiama. Non le ferite e poi le cicatrici, signori, ma il rumore».

Fai rumore racconta di quelle persone, cose, assenze, presenze mancate, che rimangono in testa. Il dente che duole, la lingua che batte.
Lo conosco, quel rumore.
Lo conosce chiunque si sia schiantato addosso all’amore, di qualsiasi genere.

Tuttavia Scandivasci sembra giustificare l’ossessione per quel tipo di rumore. Una dipendenza inespiantabile.

È soprattutto questo passaggio a colpirmi.
«[...]non c’è modo di levare di mezzo chi abbiamo amato, smettiamola di andare dalla psicoterapeuta (che peraltro ci fornisce di una serie di tattiche nucleari per voltare pagina che funzionano pure, ma non sono vere), smettiamola di vivere di esorcismi, lasciamo sul tavolo i libri aperti alla pagina dolorosa che vorremmo voltare e leggiamola tutte le volte che fa rumore».

Io, questo, non lo condivido.

La psicoterapia (non la psicanalisi) mi piace. Quasi quanto Sanremo.
È il momento in cui tiro il fiato, in cui cambio, in cui metto a posto cose che non sapevo fossero in disordine e che mi fanno funzionare male. Ma soprattutto, la psicoterapia mi ha salvato. Due volte. Una, da una vita che era tutta rumore di fondo, farcita di quelle che Wisława Szymborska avrebbe definito "calorie vuote". L'altra, dalle macerie. Le macerie possono soffocare. Liberarsi è necessario, per tornare a vedere la luce, per liberarsi dalla polvere e vivere. Se non lo avessi fatto, avrei vissuto in un rumore simile all'acufene, barcollante e perduta, a inseguire qualcosa che non c'è più.

Il rumore di cui parla Diodato nella sua canzone esiste. È un fatto. Ma non bisogna dargli troppo spazio o si trasforma in sabbie mobili, in macerie. C'è sempre qualcuno "che per noi è coltello", ci apre in due. E non è detto che sia un bene. Vivere quel sentimento è una grazia, un dono, anche per capire tutto ciò che l'amore non è.

Se il rumore lo facciamo diventare ossessione. Se ci rifugiamo all'interno di quel "bellissimo rumore che fai". Se abbandoniamo i bei suoni ancora sconosciuti per questo. Se faremo anche solo una di queste cose, saremo perduti dentro un'ossessione che ci trattiene dal presente e ci relega in un tempo parallelo e chiuso, il passato. Ameremo qualcosa che non c'è più e che quindi non ci serve. «Perdi l’amore e non è vero che resta una cicatrice: resta il rumore». Ci si può passare attraverso. Lo si può ascoltare. Ma solo per un po'. Dopo il rumore, nella mia umile esperienza, resta l'amore, cristallizzato, unico e immobile, perché è nel passato. E l'amore invece è vivo, si muove, cambia, ma soprattutto, quando c'è, ti ricambia.

Questa è, secondo me, la frase più bella dell'articolo. «Speriamo che molti italiani, questa notte, abbiano ricevuto un WhatsApp che diceva: “Fai rumore”». Ma speriamo anche che sia un messagio che non riapra ferite, bensì nuove strade.

Innamoriamoci dei suoni: presenti, contemporanei, soprattutto ricambiati. Il rumore lasciamolo raccontare ai poeti, riconosciamolo, ma poi abbandoniamolo.
Perché c'è da vivere, amare, e per questo non c'è mai abbastanza tempo.

 

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About me

Mi chiamo Stefania Leo, sono nata nella città dell'olio e, dopo un decennio a Roma, ho capito che per stare bene dovevo tornare a vivere dove la luce e il sapore dei pomodori hanno un senso: in Puglia.

Il mio lavoro è raccontare storie: di cibo, di salute, di innovazione, di viaggi e di tutto ciò che smuove la mia curiosità.

In questo sito raccolgo i miei pezzi migliori e racconto anche un po' di me e del mio lavoro.

Stefania Leo

Stefania Leo, giornalista e storyteller